APERTURA MOSTRA DAL I MARZO 2011
A vent’anni dalla scomparsa la Galleria Weber & Weber rende omaggio, con una mostra di opere degli anni ’80, all’artista Giancarlo Pacini. I lavori scelti hanno come filo conduttore la luce, sia nelle piccole valigie, che nei grandi teli neri, che rimandano ad un universo poetico e fantastico. La ricerca artistica di Giancarlo Pacini ha inizio nei primi anni ’60 attraverso una serie di esposizioni pubbliche e private. Negli anni... ’80, sensibile alle nuove possibilita’ che la tecnologia offre, Pacini perviene come naturale epilogo alle “Boites à survivre” (su cui e’ incentrata la mostra): scatole di legno scuro ritrovate. Ora, nell’arte contemporanea, dire “scatole” e’ dire Joseph Cornell. Ma Pacini, quelle “scatole”, le ha usate da sempre perche’ tali sono le “capsule spaziali”, tali i “Pret-à-porter”, l’opera “vita-oggetto dell’armadietto” e quant’altro si configuri come teca per contenere i lavori di cosmica microtridimensionalita’: tutti quanti anteriori al 1970. Questo ne esclude ogni possibile derivazione, perche’ Cornell in quegli anni non si conosce. La sua prima mostra in Italia, anzi in Europa, avviene alla galleria “Galatea” di Torino soltanto nel 1972. Ma tra Cornell e Pacini c’e’ una differenza sostanziale, perche’ le “scatole” di Cornell sono ricettacoli della memoria e “la scena di un’azione che non avra’ mai luogo” (Carluccio), mentre quelle di Pacini sono i microcosmi della vita entro il cui spazio si animano le cose; anzi dove resuscitano: dal terminus ad quem del loro scadimento, all’innocenza felice dell’autentico esistere in cui, finalmente, si rende visibile l’essenza che tenevano racchiuse in se’ ma che non si sarebbe manifestata senza lo svelamento dell’artista. Le “Boites à survivre” hanno, poi, coperchio e interruttore della luce, che sono congegni adatti alla sorpresa, per consentire il passaggio dalla posizione muta del chiuso e dello spento a quella dell’aperto e dell’accesso che impone all’improvviso la presenza dell’opera, spiazzando per un attimo colui che guarda e non sa; colui che poi vi penetra, identificando una per una le cose che la compongono; e identificandosi in loro che sono testimonianze della non consumabilita’ dell’essere, visto, insieme, come fine e principio a se stesso. E’ da supporre, in codesti manufatti come in altri, d’altronde, un’ascendenza surrealista. Ma, forse, il toscano Pacini, viaggiatore di tempi e spazi, rammemora anche qualcosa di piu’ antico e di piu’ stretta pertinenza, se ebbe a dichiarare che “le icone luminose costituiscono una forma di religiosita’ piu’ universale che quella che si esprime in figure”. E allora si pensa a quelle anconette cuspidate del Duecento e Trecento fiorentino e senese, anch’esse chiudibili e trasportabili, con gli sportelli incernierati a rivelare, una volta dischiusi, un trittico di Cristi, di Madonne e di Santi nello splendore del fondo oro: che somiglino tanto ai “Boites à survivre”, solo che queste possiedono all’interno la poesia nel suo farsi, che e’ la vita nuova di cui tutti si avverte il bisogno.
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